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Musica liquida: il piacere della comodità 

Marco Martinelli | 4 Maggio 2017

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Con il neologismo “musica liquida”, in uso tra appassionati e audiofili da ormai una decina d’anni, si identifica generalmente un […]

Con il neologismo “musica liquida”, in uso tra appassionati e audiofili da ormai una decina d’anni, si identifica generalmente un metodo di memorizzazione e riproduzione dell’audio, una migrazione dall’analogico al digitale che rappresenta una pietra miliare e che ha posto le basi presenti e future del mercato musicale. La diffusione dei computer, dei riproduttori digitali portatili e di periferiche espressamente concepite per essere collegate al tradizionale impianto Hi-Fi domestico e trattare file digitali ha aperto nuovi orizzonti in campo audio, influenzando in maniera determinante la modalità  d’ascolto tanto in termini di versatilità  quanto nel merito della resa sonora. Un passaggio certamente non immediato e segnato da tappe significative, una lunga trasformazione che possiamo ripercorrere sinteticamente ricordando per sommi capi gli elementi chiave della storia dell’Hi-Fi, iniziata nel lontano 1948 con l’introduzione del Long-Playing, meglio noto semplicemente come LP. 

di Marco Martinelli

ICON_EDICOLAProdotto in vinile nero – ma talvolta anche colorato per esigenze di marketing – l’LP è un disco contenente suoni registrati sotto forma di ondulazioni delle pareti di un solco unico inciso a spirale partendo dal bordo esterno verso il centro, che viene riprodotto alla velocità  di rotazione di 33 giri e 1/3 e letto da un gruppo puntina/testina che segue la traccia. Un sistema apparentemente semplice, che tuttavia ha rappresentato – e rappresenta tutt’ora per gli audiofili puristi – il sistema d’eccellenza per la riproduzione audio di qualità .

Di pari passo con lo sviluppo dell’Lp, anche i nastri magnetici fanno la loro comparsa sul mercato a partire dallo stesso anno, principalmente sotto forma di bobine: sarà  però necessario attendere il 1963 per ottenerne una reale diffusione di massa come supporto audio, grazie al brevetto Philips delle Compact Cassette che rappresentò di fatto anche il primo vero esempio di audio portatile, gettando le basi per lo sviluppo dei futuri player portatili, a partire dai mitici Walkman di Sony.

Dischi e nastri dominano la riproduzione analogica per molti anni, precisamente fino a quel 1979 che può essere preso come riferimento per la svolta più eclatante, con la presentazione sul mercato del disco ottico (e quindi digitale) che grazie a Philips e Sony diventerà  nel 1982 il Compact Disc o Cd Audio, ovvero un nuovo standard de facto tutt’ora in voga. Il passaggio dal “vinile” – sinonimo di disco tra appassionati e addetti ai lavori – al Cd è senz’altro da ritenersi rivoluzionario, fantastico sotto molti aspetti ma, purtroppo, ancora lungi dal raggiungere la perfezione. Sul piano pratico il Cd è immediatamente risultato eccellente sotto tutti i punti di vista, soprattutto perché maggiormente resistente all’usura, ai graffi e alle ditate rispetto all’Lp (peraltro inevitabilmente soggetto a degradarsi, seppur marginalmente, durante la lettura) compatto, capiente e meglio gestibile in riproduzione grazie ai player infinitamente più versatili di un giradischi.

A livello tecnico, già  all’esordio il Cd offriva inoltre una gamma dinamica più ampia, un rapporto segnale/rumore migliore e una risposta in frequenza più estesa e lineare: in poche parole, una resa sonora migliore, almeno sulla carta. Purtroppo, in campo audio misure e ascolto non vanno sempre d’accordo e presto ci si rese conto che sul piano della pura resa sonora il Cd risultava tutt’altro che perfetto. La tecnica di digitalizzazione e riconversione utilizzata nelle prime registrazioni digitali mostrava dei limiti che si esternavano in maniera più o meno evidente durante l’ascolto critico su apparecchi Hi-Fi di qualità : il suono spesso risultava “artefatto”, “freddo”, “troppo analitico” o “affaticante”, giusto per citare le critiche più ricorrenti espresse dagli ascoltatori evoluti che continuavano a preferire l’Lp per le capacità  sonore.

Una situazione destinata a migliorare negli anni 1999 e 2000 con l’avvento rispettivamente del Super Audio Cd (SACD) e del Dvd Audio, evoluzioni digitali del Cd concepiti proprio per aggirare i limiti e i difetti del primo dischetto ottico attraverso l’utilizzo di frequenze di campionamento e profondità  di bit superiori. In sintesi, le specifiche di produzione del Cd audio, espresse nel Philips Red Book, prevedono la codifica in Pcm (pulse code modulation) alla frequenza di campionamento di 44,1 KHz e con una profondità  di 16 bit, per una risposta in frequenza estesa da 20 Hz a 20 kHz e gamma dinamica di 96 decibel (dB).

Valori più che sufficienti per assicurare, in teoria, un’ottima resa audio; ma che non è stata tale, in pratica, a causa dell’insorgere di fenomeni di distorsione indotte dall’aliasing, sufficienti a determinare scadimenti qualitativi rilevabili all’interno della soglia udibile; Super Audio Cd e Dvd Audio aggirano questo problema utilizzando sistemi di campionamento e bit rate più elevati proprio per spostare la distorsione da aliasing oltre il limite percepibile dall’orecchio umano. Il Dvd Audio, per esempio, utilizza un campionamento Pcm alla frequenza di 192 kHz e profondità  di 24 bit, corrispondenti a una gamma dinamica di ben 144 dB, mentre il Super Audio Cd sfrutta una codifica a singolo flusso di bit denominata Dsd (direct stream digital) alla frequenza di 2,8224 MHz con gamma dinamica di 120 dB.

Purtroppo, quello che in teoria doveva rappresentare il futuro della riproduzione audio digitale, non si è concretizzato come da aspettativa, perché entrambi questi nuovi formati non sono riusciti a imporsi in maniera efficace sul Cd, per motivi di natura prevalentemente commerciale (in parte preponderante imputabile all’alto costo dei lettori di prima generazione). In realtà , mentre il Dvd Audio è andato rapidamente in declino, il SACD si è invece ritagliato una fetta di mercato di nicchia ma relativamente interessante e, soprattutto, ha attirato l’attenzione sulla codifica Dsd – scelta ai tempi come strumento preferenziale per la digitalizzazione dell’archivio musicale analogico di Sony/Cbs – sfruttabile anche indipendentemente dal supporto fisico ottico sotto forma, appunto, di musica liquida.

La validità  del formato Dsd sotto il puro profilo della resa sonora è argomento attuale e controverso nelle comunità  tecniche e audiofile, con entusiasti e detrattori da ambo le parti: un aneddoto spesso citato al riguardo risale alla conferenza Aes (Audio Engineering Society) del 2001, nella quale furono presentati due interessanti e ben motivati articoli tecnici che assumevano tesi diametralmente opposte, intitolati “Why 1-Bit Sigma-Delta Conversion In Unsuitable For High-Quality Application” (perché la conversione a 1-Bit Sigma-Delta è inadatta per applicazioni di alta qualità ) e “Why Direct Stream Digital is the best choice as a digital audio format” (perché il digital stream direct è la scelta migliore come formato audio digitale). (…)

Estratto dell’articolo pubblicato su PC Professionale di maggio 2017