Torniamo a parlare di malware, citando un interessante report sui software malevoli pubblicato da Check Point, la famosa società di sicurezza informatica, dal quale si evince che esiste un vero e proprio business dei virus e il ransomware Cerber è davvero esemplificativo: la logica utilizzata dalla criminalità informatica, sarebbe quella del franchise.
In sostanza, chi dovesse decidere di prendere parte a queste iniziative in qualità di hacker, riceverebbe tutti i tool di cui ha bisogno per realizzare i propri exploit, proponendoli addirittura a chi non ha competenze tecnologiche più elevate. I ricavi ottenuti attraverso il ransomware, sarebbero suddivisi tra i sodali del crimine informatico, riservando il 40 percento allo sviluppatore del malware.
Il report di Check Point evidenzia come a luglio 2016, in 200 nazioni, ci siano stati più di 150.000 utenti toccati dalla problematica del malware, a causa delle 160 campagne al momento ancora in corso, che secondo le stime dovrebbero generare profitti per 2.3 milioni di dollari: tuttavia, soltanto lo 0.3 percento delle persone infettate avrebbero poi effettivamente deciso di pagare il riscatto richiesto dagli hacker.
Grazie all’uso dei Bitcoin, e in modo particolare della creazione di migliaia di wallet, gli hacker riescono a rendere difficilmente comprensibile la dinamica delle transazioni compiute in relazione al pagamento di riscatti per ottenere le chiavi per la decriptazione dei dati.
Check Point, poi, sottolinea come Cerber metta a disposizione la possibilità di gestire campagne in autonomia, sfruttando set di server command & control, dotati di un’interfaccia molto user friendly e dotata di ogni risorsa, peraltro tradotta in ben dodici lingue.