Successivo

Magazine

Alla fiera dell’app

Giorgio Panzeri | 25 Agosto 2011

Preview

Distribuire, acquistare e installare applicazioni per smartphone e tablet non è mai stato così facile. Guida ai più interessanti marketplace […]

Distribuire, acquistare e installare applicazioni per smartphone e tablet non è mai stato così facile. Guida ai più interessanti marketplace digitali per dispositivi mobili.

Di Simone Zanardi

Tre anni di vita, 500.000 applicazioni, 15 miliardi di download. Sono i numeri dell’App Store, la piattaforma Apple per la distribuzione di software su smartphone e tablet lanciata nel luglio 2008 e che ha permesso a Steve Jobs di rivoluzionare ancora una volta il mercato.

Oggi tutti sanno che cosa sono le app; di fatto il termine è la semplice contrazione di application (ma anche di Apple). Non tutti si rendono però conto che il successo di questa nuova “forma” di software si deve innanzitutto al metodo con cui le app sono distribuite, acquistate e installate. App Store è un marketplace per applicazioni mobili, ovvero un negozio virtuale dove acquistare software, ma non è solo questo: è anche una nuova concezione del rapporto tra sviluppatori, produttori di sistemi operativi e hardware e utenti finali.

Sull’onda del successo di App Store, tutti i principali sistemi operativi per dispositivi mobili si sono dotati di un marketplace analogo: RIM ha lanciato BlackBerry App World, Nokia il suo Ovi Store, mentre le piattaforme nate dopo il luglio 2008 come Android e Windows Phone non sono mai esistite senza un marketplace di riferimento. Nelle prossime pagine analizzeremo tutte queste soluzioni, ma per comprendere la portata del fenomeno app spendiamo ancora qualche parola su Apple.

Come spesso avviene quando si ha a che fare con Steve Jobs, alla base del successo di App Store non vi è una tecnologia inedita: i software per smartphone e i relativi negozi online esistevano ben prima del 2008.

La vera innovazione consiste nel metodo di distribuzione delle applicazioni. Dal punto di vista dell’utente finale, l’App Store eredita quanto di meglio Apple aveva già  messo in campo con iTunes: un software per personal computer che semplifica al massimo la catalogazione e la ricerca dei contenuti, che rende immediato l’acquisto e altrettanto intuitivo il trasferimento dei prodotti virtuali da computer a dispositivo mobile. è disponibile anche come applicazione nativa per iPhone, iPad e iPod Touch, permettendo l’acquisto e l’installazione del software direttamente dall’apparato, senza dover passare dal Pc.

Ma questa è solo metà  della storia: non si possono spiegare le oltre 500.000 applicazioni che popolano oggi lo store Apple senza approfondire il rapporto tra marketplace e sviluppatori. Prima dell’avvento di App Store progettare e distribuire software per dispositivi mobili era un’impresa abbordabile per le grandi software house, ma spesso al di fuori della portata delle medie e piccole realtà , per non parlare dei singoli appassionati di programmazione. I costi dei kit di sviluppo si sommavano a quelli di pubblicazione, hosting, marketing, solo per citarne alcuni.

Apple ha radicalmente semplificato questo approccio: per 99 dollari all’anno chiunque può ottenere una licenza di sviluppo per l’App Store. Una volta terminato lo sviluppo del proprio software, è sufficiente inviarlo ad Apple che, dopo un processo di validazione, pubblica l’applicazione sul marketplace al prezzo scelto dallo sviluppatore stesso. A ogni acquisto, il 70% del ricavato va all’autore, il rimanente 30% ad Apple che però si prende carico di tutti i costi di hosting e, soprattutto, offre una formidabile vetrina all’applicazione che raggiunge immediatamente centinaia di milioni di iPhone e iPad.

Questo metodo di distribuzione ha attirato sino a oggi sull’App Store oltre 90.000 sviluppatori, dalla grande software house al singolo utente entusiasta. Nel complesso, la comunità  di developer ha guadagnato a oggi 2,5 miliardi di dollari.

Una piattaforma di sviluppo come quella appena descritta porta inevitabilmente non solo a un aumento del numero di applicazioni disponibili, ma anche a un calo della qualità  media. Anche per contrastare questo fenomeno Apple sottopone tutti i software a un processo di validazione, utile alla rimozione di contenuti inappropriati (pornografia, violenza, eccetera), di codice maligno o di progetti che violino le policy dell’App Store.

Sebbene con piccole variazioni nei dettagli, tutti i principali rivali di Apple hanno adottato per i propri marketplace un approccio simile al mondo degli sviluppatori in termini di costi di ingresso e share sui guadagni. Quello che invece cambia radicalmente è il processo di approvazione: se HP, Microsoft, Nokia e RIM hanno messo in campo un sistema di validazione analogo ad Apple, Google ha deciso di lasciare totalmente aperto l’accesso al proprio Android Market. Non appena inviata sullo store, l’applicazione è così disponibile agli utenti finali. Si tratta di un metodo che semplifica la vita ai programmatori e accorcia i tempi di pubblicazione, rendendo il marketplace più versatile, ma che al contempo alza il rischio di introdurre codice maligno nel sistema. Lo scorso marzo un rootkit è stato introdotto sul Market tramite software contraffatto con lo scopo di rubare informazioni sensibili agli utenti. Google ha rimosso le applicazioni incriminate dopo pochi giorni, ma senza riuscire a impedire 50.000 download. In seguito la grande G ha anche pubblicato un software antivirus che rimuoveva automaticamente l’infezione.

Negli ultimi anni il problema della sicurezza si è fatto delicato in ambito smartphone/tablet, da un lato per la concentrazione del mercato su pochi sistemi operativi noti, dall’altro per l’assenza di strumenti di protezione. Non è quindi un caso che i produttori di software antivirus e suite di sicurezza stiano concentrando sempre più risorse nello sviluppo di pacchetti dedicati ai device dell’era post-Pc.

Un’ultima nota sulla terminologia adottata nell’articolo: la dicitura “app store” è attualmente nell’occhio del ciclone. Apple ha infatti avviato una pratica per brevettarlo come brand, diffidando al contempo alcuni concorrenti (tra cui Amazon, Microsoft e GetJar) dal servirsi della medesima locuzione per i propri marketplace virtuali. Queste ultime controbattono sostenendo che app store è un termine troppo generico per essere brevettabile e si riservano quindi il diritto di utilizzarlo liberamente. In attesa di ulteriori sviluppi legali, per evitare confusione, nel prosieguo di questo articolo con il termine App Store indicheremo la piattaforma Apple. (…)

Estratto dall’articolo pubblicato sul numero 246 – settembre 2011