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Editoriale | Magazine

Lo smartphone? Lo voglio etico

Giorgio Panzeri | 27 Giugno 2013

Editoriale

È possibile avere un telefono di qualità , con ottime prestazioni, ma assemblato in fabbriche dove la dignità  umana è un […]

È possibile avere un telefono di qualità , con ottime prestazioni, ma assemblato in fabbriche dove la dignità  umana è un parametro più importante dell’interesse economico?

482601_528197627215842_660041241_nI fatti di Foxconn, la maxi fabbrica cinese dove si assemblano molti prodotti di famose aziende internazionali, fanno riflettere. Infinite ore di lavoro sette giorni alla settimana, impossibilità  di tornare a casa, con obbligo di rimanere nei dormitori comuni costruiti interno alla fabbrica, squadre di studenti cooptate per le catene di montaggio, hanno spinto molti al suicidio. E non è tutto qui. Molte delle materie prime necessarie per la realizzazione di uno smartphone provengono da Stati del terzo mondo in perenne guerra con i vicini. Certo, costano meno. Ma i proventi realizzati con la vendita di queste richiestissime materie prime sono usati per acquistare armi, non per sfamare la popolazione. Partendo da queste considerazioni nel marzo 2011 è nata la fondazione Fairphone (www.fairphone.com), coordinata dalla società  olandese Waag, che si è prefissa lo scopo di realizzare il primo smartphone (appunto il Fairphone) etico. Le basi sulle quali poggia il progetto riguardano sia le materie prime (molte delle miniere partner sono certificate dalle ONG), sia le fabbriche di produzione e assemblaggio (gli sviluppatori stanno lavorando con varie organizzazioni no-profit per la produzione dello smartphone). E non è tutto: i fornitori della componentistica elettronica utilizzata per il Fairphone hanno l’obbligo di assicurare condizioni di lavoro dignitose. Il modello utilizzato per finanziare il progetto è il crowdfunding, ossia senza grandi investitori ma con un finanziamento diffuso che deriva direttamente dalla vendita sulla fiducia del prodotto. In pratica, entro fine maggio dovevano essere acquistati in anteprima almeno 5.000 Fairphone per poter passare dalla fase progettuale a quella produttiva. E i ragazzi della fondazione ci sono arrivati: ne hanno in prenotazione altre 6.000. Quindi entro ottobre tutti coloro che hanno già  aderito al progetto comprando lo smartphone, lo riceveranno a casa. Il prossimo obiettivo della fondazione, per garantire continuità  di lavoro, è quello di vendere circa 20.000 Fairphone entro fine anno.

Stiamo parlando di numeri veramente piccoli se paragonati ai milioni di pezzi venduti nel mondo dai brand più noti, ma su questo progetto penso sia interessante fare due considerazioni. La prima riguarda la possibilità  di creare un ecosistema produttivo con un occhio di riguardo alla dignità  umana, finalità  che dovrebbe essere perseguita anche dalle aziende che hanno il profitto nel loro dna. La fondazione Fairphone sta dimostrando che non è un’utopia. La seconda considerazione riguarda le forme di finanziamento dei nuovi progetti. Stanno scomparendo gli incubator o i venture capitalist (salvo per programmi di grandi e costose dimensioni) per lasciare spazio all’investimento diffuso. Nell’era dei social network ha preso piede anche il social funding. Basta fare un giro tra le pagine di kickstarter.com per rendersi conto di quanti progetti stanno per essere realizzati in questo modo, progetti che magari non sarebbero mai partiti perché non sufficientemente renumerativi per un investitore istituzionale. Ed è una prospettiva interessante anche per molti dei nostri giovani che hanno idee brillanti ma nessun capitale per lo startup. Soprattutto in un periodo come quello attuale nel quale le banche sono molto restie a finanziare nuovi progetti.

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