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Editoriale | Magazine

Controllori e controllati

Dario Orlandi | 1 Marzo 2018

Editoriale

Il 15 febbraio Google ha attivato la funzione di blocco delle pubblicità integrata nel suo browser Chrome, ma siamo al paradosso: un solo attore (Google) controlla contemporaneamente la piattaforma (Chrome), la porta di ingresso per le pubblicità (il servizio di ad blocking) ed è uno dei maggiori player nel mercato della pubblicità online.

Dopo una fase beta durata alcuni mesi, lo scorso 15 febbraio Google ha attivato la funzione di blocco delle pubblicità integrata nel suo browser Chrome. L’approccio dell’azienda di Mountain View è molto più amichevole rispetto a quello dei tradizionali ad blocker di terze parti (ne parliamo nell’articolo sulle estensioni per i browser Web, sul numero di marzo di PC Professionale): la funzione nativa analizza le pagine Web e le confronta con le linee guida stabilite dalla Coalition for Better Ads (www.betterads.org), un’associazione che raggruppa molti dei principali attori del mercato delle pubblicità online.

La versione desktop di Chrome considera inaccettabili le pubblicità popup, quelle che non possono essere chiuse prima che sia trascorso un intervallo di tempo, i video ad avvio automatico con audio attivo e le pubblicità sticky (che non si muovono insieme alla pagina) di grandi dimensioni. Ancor più stringenti sono i canoni per la versione mobile: oltre alle categorie già citate non sono accettate neppure le pubblicità lampeggianti, quelle a tutto schermo che si sovrappongono al contenuto e, più in generale, le pagine con una densità di banner superiore al 30%. Google controllerà il comportamento delle pagine visitate dagli utenti e invierà avvisi ai gestori dei siti non conformi. Se i gestori rifiuteranno di conformarsi alle linee guida, dopo 30 giorni Chrome inizierà a bloccare le pubblicità.

L’iniziativa di Google è interessante e apparentemente contraddittoria, almeno a un’analisi superficiale: nel 2017, infatti, quasi l’87% dei ricavi dell’azienda è provenuto, in forma diretta o indiretta, dal business della pubblicità. Ma la mancanza di regole in questo settore rappresenta un grosso rischio per chi vive di pubblicità: secondo l’ultimo Adblock Report di PageFair, il numero di browser che installano soluzioni di blocco delle pubblicità è cresciuto del 30% anno su anno, arrivando a coprire l’11% della popolazione dei navigatori. La grande maggioranza dei sistemi di blocco elimina ogni genere di annuncio e azzera quindi i ricavi pubblicitari. Sotto questa luce, la mossa di Google appare molto più comprensibile.

Quando si muove un “peso massimo”, però, sorgono inevitabilmente alcune questioni delicate: Google controlla contemporaneamente la piattaforma (Chrome), la porta di ingresso per le pubblicità (il servizio di ad blocking) ed è uno dei maggiori player nel mercato della pubblicità online. Se un’unica azienda ha un potere così ampio, il rischio di comportamenti anti-competitivi è sempre dietro l’angolo. Per questo, pur apprezzando la struttura del nuovo sistema di ad blocking di Google, avremmo preferito che il compito di analizzare la correttezza delle pubblicità fosse affidato a un attore terzo. Se da un lato è vero che gli utenti possono comunque installare estensioni di terze parti per il blocco delle pubblicità, dall’altro la funzione nativa integrata in Chrome, attiva per default nel browser utilizzato da oltre il 60% dei navigatori, può contare su una base installata molto superiore a quella di tutti gli altri ad blocker assommati.