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Editoriale | Magazine

La diplomazia dei motori di ricerca

Dario Orlandi | 21 Dicembre 2018

Editoriale

Il mese scorso in Francia sia l’Assemblea Nazionale (l’equivalente della nostra Camera dei Deputati) sia il Ministro della Difesa hanno […]

Il mese scorso in Francia sia l’Assemblea Nazionale (l’equivalente della nostra Camera dei Deputati) sia il Ministro della Difesa hanno dichiarato che tutti i dispositivi digitali in capo alle due organizzazioni smetteranno di utilizzare Google come motore di ricerca predefinito. Il suo posto verrà preso da Qwant, un servizio sviluppato nell’Unione Europea che dichiara di non raccogliere alcuna informazione personale sui suoi utenti. 

Questa decisione è soltanto l’ultima di una serie di eventi in apparenza scollegati tra loro, ma che invece mostrano a un occhio attento come sia in atto una vera e propria battaglia diplomatica e commerciale a bassa intensità, in cui gli schieramenti e le alleanze tradizionali si sono ormai sbriciolate in un clima di reciproco sospetto. Gli Stati Uniti hanno messo nel mirino ormai da tempo i produttori cinesi: dopo aver messo al bando Zte la scorsa primavera (e averla in parte riammessa in luglio dopo aver raggiunto un nuovo accorto), è ora in atto una campagna di dissuasione presso gli alleati Usa che ha per obbiettivo i dispositivi e le infrastrutture realizzate da Huawei, in particolare per quanto riguarda le reti 5G.

La mossa francese mostra però come anche il livello di fiducia nei confronti dei Paesi considerati tradizionalmente come amici e alleati sia piuttosto basso. Non è una novità, infatti, che la grande maggioranza dei motori di ricerca utilizzi le informazioni raccolte sugli utenti per compilare profili personali estremamente dettagliati, con lo scopo dichiarato di offrire messaggi pubblicitari mirati e quindi più pertinenti. Ma le vicende emerse negli ultimi anni, dalle rivelazioni di Snowden allo scandalo di Cambridge Analytica, hanno mostrato come le informazioni raccolte dai grandi player della Rete possano essere sfruttate per obiettivi molto più oscuri e preoccupanti di una pubblicità personalizzata. L’amministrazione francese ha compiuto i primi passi concreti per garantirsi una maggiore autonomia nel campo dei dispositivi digitali; ma questioni come queste non possono che essere affrontate a livello europeo. I commentatori più critici hanno visto queste decisioni come semplici dichiarazioni di facciata, che non toccano i veri nodi cruciali del settore, come l’extraterritorialità di fatto delle informazioni residenti nel cloud e la tassazione dei giganti del settore tech.

Un contributo originale al dibattito è venuto da Bernard Benhamou, analista presso l’Istituto per la Sovranità Digitale, un’istituzione francese creata proprio per stimolare e governare la gestione dei dati di interesse nazionale. Secondo Benhamou la sovranità digitale non dev’essere intesa in senso difensivo e autarchico, ma come stimolo alla creazione delle condizioni sociali ed economiche che possano favorire la nascita e la crescita in ambito europeo di nuove aziende capaci di rispondere allo strapotere americano e asiatico nel settore di Internet e nel nascente mercato dell’intelligenza artificiale. Bisogna in particolare trovare strumenti che consentano di mantenere all’interno dei confini europei le molte startup innovative che continuano a sbocciare ma vengono poi spesso acquisite da aziende e investitori esterni.