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Internet of Things nel lungo periodo

Dario Orlandi | 13 Settembre 2016

Editoriale

Nel lungo periodo saremo tutti morti”; così rispondeva, con una frase divenuta celebre, l’economista Keynes a chi criticava le conseguenze […]

Nel lungo periodo saremo tutti morti”; così rispondeva, con una frase divenuta celebre, l’economista Keynes a chi criticava le conseguenze e l’applicabilità  a lungo termine delle sue teorie. Ma “il lungo periodo” è un concetto volatile, che può mostrare risvolti sorprendenti. Nel settore della tecnologia, per esempio, un computer può avere un’aspettativa di vita ragionevole di tre o quattro anni, uno smartphone può durare un paio d’anni prima di diventare obsoleto, mentre per un sistema operativo si può sperare in una vita utile di 6-8 anni.

I problemi iniziano a sorgere quando i cicli del settore dell’informatica vengono applicati anche fuori dal loro contesto, come per esempio nel grande calderone dell’Internet of Things: lampadine intelligenti, controllabili dallo smartphone con un’App, smettono di funzionare dopo tre o quattro anni perché il produttore ha deciso di “staccare la spina”, ossia di non continuare a offrire le funzioni cloud necessarie per il loro funzionamento. È un problema cruciale: sempre più spesso, infatti, software, servizi e prodotti hardware sono soltanto “client” di un’infrastruttura più complessa, capace di funzionare soltanto se è disponibile anche un lato server, nel cloud. Le notizie di “morti premature” sono sempre più frequenti: le lampadine smart prodotte da Tsp, alcune schede di memoria con funzioni wireless di Eye-FI (anche se il produttore ha fatto marcia indietro dopo la pioggia di critiche ricevute).

Perfino un colosso come Google non ha avuto scrupoli a dismettere lo smart hub Revolv (un prodotto entrato nel suo enorme catalogo con l’acquisizione di Nest), rendendo inutilizzabile nel giro di pochi mesi un oggetto che era venduto a un prezzo di listino vicino ai 300 dollari. Il problema non è quindi sempre legato all’affidabilità  di aziende piccole o sconosciute, spesso startup, che propongono soluzioni e prodotti basati su componenti server side; anche i giganti dell’IT possono decidere che un prodotto o un servizio non sono più interessanti, remunerativi, o che non vale la pena di sostenere i costi necessari per mantenerli in vita.

Questo genere di incertezza è un problema grave, che si unisce ai timori sulla sicurezza degli oggetti connessi e potrebbe minare alle basi lo sviluppo di uno dei settori più promettenti tra quelli legati alla tecnologia e all’innovazione. Come evitare il possibile disastro? Servono contratti chiari, impegni precisi da parte dei produttori, consapevolezza diffusa tra gli utenti ma soprattutto servono standard aperti o comunque interoperabili, che consentano di supplire all’uscita di scena di un fornitore di servizi senza perdere la piena funzionalità  del prodotto acquistato.

Dario Orlandi

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